Se i No non prevarranno nel
referendum popolare sulla riforma del Senato, la Costituzione del 1947 non
esisterà più, abrogata in tutta la parte concernente l’ordinamento
della Repubblica e sostituita con un’altra.
Avremo un Senato dopolavoro dei consiglieri
regionali; l’esecutivo padrone dell’agenda dei lavori parlamentari (avrà leggi
approvate a data fissa); un solo partito identificato col governo e detentore
di una maggioranza assoluta attribuitale dalla legge vigente “Italicum” grazie
al premio di maggioranza; la fiducia, non più dovuta dal Senato, assicurata
alla Camera dal solo partito del presidente del Consiglio, non una vera fiducia
perché inquinata dal vincolo della disciplina di partito, restando irrilevante
il voto di altri gruppi, a differenza di quanto avviene nelle coalizioni; i
rapporti di forza governo-regioni modificati a favore del centralismo statale;
le forme di democrazia diretta rese più difficili, la stessa rappresentanza
mortificata con la nomina dei deputati e la riduzione del pluralismo politico;
gli organi di garanzia ridimensionati, a cominciare dal presidente della
Repubblica, a causa del peso decisivo del partito dominante e dell’uomo al
comando nell’esprimerli; e la Costituzione sarà indebolita nella sua capacità
di resistere ad altre avventate future riforme.
Ma al di là dei
contenuti, questa riforma soffre di quello che potremmo chiamare “un peccato originale”, il fatto cioè di
essere approvata da un Parlamento di nominati dai partiti,
delegittimato da una sentenza della Corte Costituzionale che lo ha giudicato
non rappresentativo della sovranità popolare a causa del “Porcellum” con cui è
stato eletto. Con conseguente
illegittimità della sua composizione: i 150 voti dovuti al premio di
maggioranza avrebbero dovuto essere distribuiti.
Nella sentenza della Consulta si affermava sì che le
Camere potevano continuare ad operare, non però in forza della legge elettorale
dichiarata incostituzionale, ma grazie a un principio fondamentale del nostro
ordinamento, “principio di continuità dello Stato»”.
La Corte richiamava, quale esempio di applicazione di tale principio, la prorogatio dei
poteri delle Camere, a seguito delle nuove elezioni, finché non vengano
convocate le nuove, come previsto dall’articolo art. 61 Costituzione che però pone
un limite di tempo non superiore ai tre mesi.
Evidente che un Parlamento nel quale perdura la «eccessiva
sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa», delegittimato quanto
meno politicamente, se non anche giuridicamente, non può considerarsi
legittimato a procedere ad una revisione costituzionale di così ampia portata. Un
Parlamento costituito da parlamentari “nominati”
grazie al Porcellum, insicuri di essere rieletti e perciò
ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII
legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro: con 325
migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale
di 246 parlamentari coinvolti.