Un mantra ripetuto dai sostenitori della riforma
costituzionale è che con la riduzione del numero dei senatori ci sarà un
abbattimento dei costi, dato che essi non percepiranno alcuna indennità.
1.
Quanto
costa il Senato?
Le spese per il Senato ammontano, attualmente, a
circa 540 milioni di euro. Nel 2015 questa istituzione ha gravato sul bilancio
complessivo dello Stato per una percentuale dello 0,064%, con un rapporto di 1:1.568 .
Va innanzi tutto notato che si tratta di una spesa
che è andata crescendo notevolmente nel corso delle legislature della “seconda
Repubblica”, con incrementi dovuti
soprattutto alla previdenza per gli ex senatori e alle spese (retribuzioni e
pensioni) per i dipendenti del Senato (e lo stesso è accaduto alla Camera).
Paradossalmente, man mano che si acuiva la critica antiparlamentare (fatta
propria anche dalla gran parte delle forze politiche che sedevano in Parlamento)
il Parlamento italiano costava sempre di più.
2.
Quanto
pesa la spesa per le indennità dei senatori in carica?
Dal bilancio pubblicato sul sito del Senato risulta
chiaramente che l’indennità dei senatori è solo una piccola frazione del costo
totale dell’istituzione. Attualmente, la spesa per l’indennità dei senatori
ammonta a meno del 10% del totale (circa 42 milioni di euro).
La riforma porterebbe un risparmio modesto: i nuovi
senatori continuerebbero comunque a percepire la diaria (attualmente circa 37
milioni di euro), che copre le spese di viaggio e di permanenza a Roma per
l’esercizio del mandato. Anche se queste spese ricadessero sulle
amministrazioni di appartenenza, sarebbero comunque a carico del pubblico
erario.
Inoltre, la parte più rilevante della spesa rimarrebbe
invariata: essa è infatti costituita dai costi per le pensioni degli ex senatori e ex
dipendenti (ben 233 milioni di euro), per gli immobili, i servizi e,
soprattutto, per il personale: tali costi
non verrebbero affatto eliminati con la riforma del Senato. Va anzi notato che,
tra le disposizioni finali della riforma, è inserita una norma che, allo scopo
dichiarato di rendere più efficienti le amministrazioni delle due Camere,
istituisce un ruolo unico dei dipendenti del Parlamento, di fatto costituzionalizzando questa figura di
funzionario statale col rischio, sottaciuto, di sottrarla definitivamente
alle manovre di risparmio che interessano tutti gli altri dipendenti pubblici
(spendig review, blocco del turn over e degli scatti stipendiali, tagli delle
pensioni etc.).
3. Perché non diminuire anche il
numero dei deputati?
Se la logica è quella del risparmio, ridurre solo il
numero dei senatori è un sintomo di falsa coscienza. Potrebbero allora
piuttosto essere ridotti sia i senatori sia i deputati.
Va notato che sono stati avanzati diversi progetti di riforma
che propongono di ridurre i numeri dei parlamentari delle due Camere. Tra
questi, anche un progetto avanzato dal Gruppo PD nel 2008 che prevede 400
deputati e 200 senatori, con una riduzione del rapporto attuale del numero di parlamentari
per 100mila abitanti da 1,6 a 1.
4.
I nostri parlamentari sono tanti?
Se analizziamo la graduatoria degli Stati con il maggior numero di
parlamentari per abitante, l’Italia si colloca al 22° posto su 27 Paesi. Gli altri Stati di dimensione comparabile
(Francia, Spagna) presentano valori non dissimili: ogni 100 mila abitanti in
Italia ci sono 1,6 parlamentari, in Francia 1,4 e in Spagna 1,3.
Una posizione particolare presentano invece il Regno Unito (2,4 parlamentari
ogni 100mila abitanti) e la Germania ( 0,8 parlamentari ogni 100 mila abitanti)
Al di là dei
numeri (troppi, troppo pochi?) la valutazione sul giusto numero di parlamentari
per il nostro Paese dovrebbe essere preceduta
da una riflessione sulla rappresentanza: chi o che cosa si vuole
rappresentare? Come? Per esercitare quali competenze?
Invece, tanto la critica all’attuale numero di parlamentari previsto nel
nostro Parlamento, quanto la determinazione del numero di senatori proposta
nella riforma, non appaiono affatto impostati partendo da riflessioni sulla
rappresentanza democratica, né su come migliorare la selezione dei parlamentari
per provare a riformare un ceto politico ridotto ormai a rappresentanza delle
oligarchie partitiche e non dei cittadini.
Esse sembrano piuttosto il frutto di un diffuso sentimento antiparlamentare
(con ragionamenti del tipo: il Parlamento in fondo non serve, quindi meglio
ridurre il più possibile il numero di parlamentari che gravano sui
contribuenti) e di una scelta finale casuale: il progetto del Governo prevedeva
122 senatori “rappresentativi” e 21 senatori nominati dal Presidente della
Repubblica; il testo attuale prevede invece 95 senatori “rappresentativi” e 5
senatori nominati dal Presidente della Repubblica.
Invero, se la funzione del Senato è quella di rappresentare le autonomie
territoriali, di tutelare le competenze regionali e di rappresentare le istanze
degli enti regionali (e non direttamente il corpo elettorale della regione), allora il numero
di componenti si può ragionevolmente ridurre e il rapporto
popolazione/rappresentanti può essere alterato anche molto, magari anche
assegnando un numero fisso e uguale di rappresentanti ad ogni ente territoriale
a prescindere dalla loro consistenza demografica. Ma la riforma non sposa
questa logica, riduce solo i numeri dei senatori (e le competenze delle
regioni): i nuovi senatori infatti non rappresenteranno la Regione da cui
provengono, ma le forze politiche che li hanno selezionati e riprodurranno,
dentro al Senato, la composizione partitica dei Consigli regionali, senza
nemmeno essere vincolati (come invece avviene in Germania col vincolo di
mandato) alle direttive della propria regione.
5. L’esempio delle Province: abolire tutto per non
abolire niente, o meglio per abolire soltanto il diritto dei cittadini di
essere rappresentati nelle istituzioni
La retorica dell’inutilità dell’istituzione e della necessità di tagliare i
costi eccessivi della politica che accompagna la riforma del Senato ha sorretto,
prima ancora, la riforma delle Province sfociata nella legge 56 del 2014 (c.d.
Legge Delrio). Essa prevede il trasferimento delle funzioni delle Province alle
Regioni e ai Comuni (in vista del loro definitivo superamento che avverrà con
la riforma costituzionale) e la soppressione dell’elettività diretta delle
cariche provinciali, sostituita da una elezione di secondo grado da parte dei
sindaci e dei consiglieri dei Comuni compresi nella Provincia.
Ad un anno dalla sua entrata in vigore, la relazione della Corte dei Conti al Parlamento disegna un quadro piuttosto negativo: oggi le Province in sostanza continuano a
fare quel che facevano prima della riforma; i servizi erogati non sono infatti venuti
meno con l’abolizione dell’elettività degli organi. Anche i costi non si sono
ridotti: il personale non è infatti scomparso, ma andrà semmai trasferito (col
rischio che se verrà trasferito alle Regioni avrà un trattamento retributivo
superiore, altro che tagli!), né le funzioni da esercitare, che costano come
prima.
A fronte dunque di un modesto risparmio realizzato sullo stipendio dei componenti
degli organi Provinciali, i cittadini hanno pagato il prezzo altissimo di
perdere il potere di scegliere direttamente chi deve gestire i loro servizi e
il loro territorio.
6.
E quanto
costano i nostri Governi?
La critica sui costi della politica si concentra sempre sulle istituzioni
parlamentari, mentre trascura di rivolgere la stessa indagine sul Governo.
L’istituzione Governo gode di “buona stampa” e non viene percepita come
sprecona.
Eppure i numeri degli Esecutivi dell’era del bipolarismo e dei “Governi
eletti” dovrebbero fare riflettere sul rischio “elefantiasi” che investe questa
istituzione: un sistema che si regge sulla fedeltà al Capo anziché sul rapporto
rappresentativo con gli elettori deve necessariamente accontentare molti appetiti.
Per esempio, il Governo Renzi si compone di ben 64 membri tra ministri,
viceministri e sottosegretari… quasi una terza Camera, altro che bicameralismo!
E quanto ai costi, i Ministeri spendono sempre di più e non c’è alcuna reale
volontà politica di realizzare l’ormai famigerata spending review.
Le spese del Segretariato generale di Palazzo Chigi sono lievitate fino alla cifra (nel 2014) di 754 milioni di euro… roba da far
impallidire qualunque Senato!