giovedì 17 marzo 2016

La riforma abbatte radicalmente i costi. Falso !

Un mantra ripetuto dai sostenitori della riforma costituzionale è che con la riduzione del numero dei senatori ci sarà un abbattimento dei costi, dato che essi non percepiranno alcuna indennità.

1.   Quanto costa il Senato?
Le spese per il Senato ammontano, attualmente, a circa 540 milioni di euro. Nel 2015 questa istituzione ha gravato sul bilancio complessivo dello Stato per una percentuale dello 0,064%,  con un rapporto di 1:1.568 .
Va innanzi tutto notato che si tratta di una spesa che è andata crescendo notevolmente nel corso delle legislature della “seconda Repubblica, con incrementi dovuti soprattutto alla previdenza per gli ex senatori e alle spese (retribuzioni e pensioni) per i dipendenti del Senato (e lo stesso è accaduto alla Camera). Paradossalmente, man mano che si acuiva la critica antiparlamentare (fatta propria anche dalla gran parte delle forze politiche che sedevano in Parlamento) il Parlamento italiano costava sempre di più.

2.   Quanto pesa la spesa per le indennità dei senatori in carica?
Dal bilancio pubblicato sul sito del Senato risulta chiaramente che l’indennità dei senatori è solo una piccola frazione del costo totale dell’istituzione. Attualmente, la spesa per l’indennità dei senatori ammonta a meno del 10% del totale (circa 42 milioni di euro).
La riforma porterebbe un risparmio modesto: i nuovi senatori continuerebbero comunque a percepire la diaria (attualmente circa 37 milioni di euro), che copre le spese di viaggio e di permanenza a Roma per l’esercizio del mandato. Anche se queste spese ricadessero sulle amministrazioni di appartenenza, sarebbero comunque a carico del pubblico erario.
Inoltre, la parte più rilevante della spesa rimarrebbe invariata: essa è infatti costituita dai costi per   le pensioni degli ex senatori e ex dipendenti (ben 233 milioni di euro), per gli immobili, i servizi e, soprattutto, per il personale: tali costi non verrebbero affatto eliminati con la riforma del Senato. Va anzi notato che, tra le disposizioni finali della riforma, è inserita una norma che, allo scopo dichiarato di rendere più efficienti le amministrazioni delle due Camere, istituisce un ruolo unico dei dipendenti del Parlamento, di fatto costituzionalizzando questa figura di funzionario statale col rischio, sottaciuto, di sottrarla definitivamente alle manovre di risparmio che interessano tutti gli altri dipendenti pubblici (spendig review, blocco del turn over e degli scatti stipendiali, tagli delle pensioni etc.).

3.   Perché non diminuire anche il numero dei deputati?
Se la logica è quella del risparmio, ridurre solo il numero dei senatori è un sintomo di falsa coscienza. Potrebbero allora piuttosto essere ridotti sia i senatori sia i deputati.
Va notato che sono stati avanzati diversi progetti di riforma che propongono di ridurre i numeri dei parlamentari delle due Camere. Tra questi, anche un progetto avanzato dal Gruppo PD nel 2008 che prevede 400 deputati e 200 senatori, con una riduzione del rapporto attuale del numero di parlamentari per 100mila abitanti da 1,6 a 1.


4.   I nostri parlamentari sono tanti?
Se analizziamo la graduatoria degli Stati con il maggior numero di parlamentari per abitante, l’Italia si colloca al 22° posto su 27 Paesi. Gli altri Stati di dimensione comparabile (Francia, Spagna) presentano valori non dissimili: ogni 100 mila abitanti in Italia ci sono 1,6 parlamentari, in Francia 1,4 e in Spagna 1,3.
Una posizione particolare presentano invece il Regno Unito (2,4 parlamentari ogni 100mila abitanti) e la Germania ( 0,8 parlamentari ogni 100 mila abitanti)
Al di là dei numeri (troppi, troppo pochi?) la valutazione sul giusto numero di parlamentari per il nostro Paese dovrebbe essere preceduta da una riflessione sulla rappresentanza: chi o che cosa si vuole rappresentare? Come? Per esercitare quali competenze?
Invece, tanto la critica all’attuale numero di parlamentari previsto nel nostro Parlamento, quanto la determinazione del numero di senatori proposta nella riforma, non appaiono affatto impostati partendo da riflessioni sulla rappresentanza democratica, né su come migliorare la selezione dei parlamentari per provare a riformare un ceto politico ridotto ormai a rappresentanza delle oligarchie partitiche e non dei cittadini.
Esse sembrano piuttosto il frutto di un diffuso sentimento antiparlamentare (con ragionamenti del tipo: il Parlamento in fondo non serve, quindi meglio ridurre il più possibile il numero di parlamentari che gravano sui contribuenti) e di una scelta finale casuale: il progetto del Governo prevedeva 122 senatori “rappresentativi” e 21 senatori nominati dal Presidente della Repubblica; il testo attuale prevede invece 95 senatori “rappresentativi” e 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica.
Invero, se la funzione del Senato è quella di rappresentare le autonomie territoriali, di tutelare le competenze regionali e di rappresentare le istanze degli enti regionali (e non direttamente il  corpo elettorale della regione), allora il numero di componenti si può ragionevolmente ridurre e il rapporto popolazione/rappresentanti può essere alterato anche molto, magari anche assegnando un numero fisso e uguale di rappresentanti ad ogni ente territoriale a prescindere dalla loro consistenza demografica. Ma la riforma non sposa questa logica, riduce solo i numeri dei senatori (e le competenze delle regioni): i nuovi senatori infatti non rappresenteranno la Regione da cui provengono, ma le forze politiche che li hanno selezionati e riprodurranno, dentro al Senato, la composizione partitica dei Consigli regionali, senza nemmeno essere vincolati (come invece avviene in Germania col vincolo di mandato) alle direttive della propria regione.


5.   L’esempio delle Province: abolire tutto per non abolire niente, o meglio per abolire soltanto il diritto dei cittadini di essere rappresentati nelle istituzioni
La retorica dell’inutilità dell’istituzione e della necessità di tagliare i costi eccessivi della politica che accompagna la riforma del Senato ha sorretto, prima ancora, la riforma delle Province sfociata nella legge 56 del 2014 (c.d. Legge Delrio). Essa prevede il trasferimento delle funzioni delle Province alle Regioni e ai Comuni (in vista del loro definitivo superamento che avverrà con la riforma costituzionale) e la soppressione dell’elettività diretta delle cariche provinciali, sostituita da una elezione di secondo grado da parte dei sindaci e dei consiglieri dei Comuni compresi nella Provincia.
Ad un anno dalla sua entrata in vigore, la relazione della Corte dei Conti al Parlamento disegna un quadro piuttosto negativo: oggi le Province in sostanza continuano a fare quel che facevano prima della riforma; i servizi erogati non sono infatti venuti meno con l’abolizione dell’elettività degli organi. Anche i costi non si sono ridotti: il personale non è infatti scomparso, ma andrà semmai trasferito (col rischio che se verrà trasferito alle Regioni avrà un trattamento retributivo superiore, altro che tagli!), né le funzioni da esercitare, che costano come prima.
A fronte dunque di un modesto risparmio realizzato sullo stipendio dei componenti degli organi Provinciali, i cittadini hanno pagato il prezzo altissimo di perdere il potere di scegliere direttamente chi deve gestire i loro servizi e il loro territorio.

6.   E quanto costano i nostri Governi?
La critica sui costi della politica si concentra sempre sulle istituzioni parlamentari, mentre trascura di rivolgere la stessa indagine sul Governo. L’istituzione Governo gode di “buona stampa” e non viene percepita come sprecona.
Eppure i numeri degli Esecutivi dell’era del bipolarismo e dei “Governi eletti” dovrebbero fare riflettere sul rischio “elefantiasi” che investe questa istituzione: un sistema che si regge sulla fedeltà al Capo anziché sul rapporto rappresentativo con gli elettori deve necessariamente  accontentare molti appetiti.
Per esempio, il Governo Renzi si compone di ben 64 membri tra ministri, viceministri e sottosegretari… quasi una terza Camera, altro che bicameralismo! E quanto ai costi, i Ministeri spendono sempre di più e non c’è alcuna reale volontà politica di realizzare l’ormai famigerata spending review.
Le spese del Segretariato generale di Palazzo Chigi sono lievitate fino alla cifra (nel 2014) di 754 milioni di euro… roba da far impallidire qualunque Senato! 

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